In una logica di “dolore edonistico” filtrato dalle sovrastrutture mentali contemporanee, Les pecheurs di Roberta Fanti appaiono come interpretazioni estetiche, patinate, glamour quasi come foto di moda, della punizione fisica che redime, concetto fondante della religione cattolica.
Attraverso forti rimandi alla storia dell’arte dove scene cristologiche di passioni e martiri infondono piacere più che repulsione - il bellissimo S.Sebastiano del Mantegna o l’ estasi di Santa Teresa del Bernini – Roberta Fanti crea immagini di grande impatto visivo percorse dal sottilissimo confine tra spiritualità e piacere, dove corpi nudi, perfetti e incatenati si affiancano a interventi narrativi di preghiere in latino.
Atti di penitenza e di dolore, rappresentazioni della sofferenza come espiazione dei peccati, oppure visualizzazione di quelle pulsioni recondite, oscure, che facciamo fatica ad accettare?
In linea con la dualità che abbiamo dentro dettata dalla schizofrenia del nostro tempo, Les pecheurs giocano su un doppio livello di lettura, coppie antitetiche di significante - passione/piacere, spiritualità/carnalità, sacro/profano, antico/moderno - all’interno delle quali lo spettatore, protagonista attivo di questo scenario, ha il compito di decidere dove finisce la penitenza ed inizia il piacere, quando alla sacralità della sofferenza sostituire la sacralità del piacere.
Attraverso forti rimandi alla storia dell’arte dove scene cristologiche di passioni e martiri infondono piacere più che repulsione - il bellissimo S.Sebastiano del Mantegna o l’ estasi di Santa Teresa del Bernini – Roberta Fanti crea immagini di grande impatto visivo percorse dal sottilissimo confine tra spiritualità e piacere, dove corpi nudi, perfetti e incatenati si affiancano a interventi narrativi di preghiere in latino.
Atti di penitenza e di dolore, rappresentazioni della sofferenza come espiazione dei peccati, oppure visualizzazione di quelle pulsioni recondite, oscure, che facciamo fatica ad accettare?
In linea con la dualità che abbiamo dentro dettata dalla schizofrenia del nostro tempo, Les pecheurs giocano su un doppio livello di lettura, coppie antitetiche di significante - passione/piacere, spiritualità/carnalità, sacro/profano, antico/moderno - all’interno delle quali lo spettatore, protagonista attivo di questo scenario, ha il compito di decidere dove finisce la penitenza ed inizia il piacere, quando alla sacralità della sofferenza sostituire la sacralità del piacere.
“Tende, la bellezza alla sfericità [ ]”
Maria Zambrano, scrittrice
Maria Zambrano, scrittrice
2006, Isabella Falbo, A Certain Form of Heaven
Il lavoro di Roberta Fanti si pone da anni su di una linea di raffinata riflessione concettuale dove l’asciutto minimalismo della dimensione poetica si sposa alla capacità di comporre installazioni eclettiche di rara eleganza e misura. Quindi la dimensione del puro pensiero si rapporta all’universo sensoriale alla ricerca di una dimensione di quiete e di pura contemplazione, privata del tumulto di una passione troppo accesa e viscerale. Dopo una serie di opere in cui si manifestava una predominanza concettuale nell’uso di toni e tinte essenziali ed una chiara tendenza aniconica, più ispirata alla ritmicità decorativa della tradizione orientale che a quella occidentale, dove l’astrazione è quasi sempre rimpianto dell’immagine, negli ultimi lavori, oggetto di questa personale, l’artista pare concedere qualcosa in più alla dimensione figurativa, pur mantenendo sempre un rigoroso controllo dell’insieme compositivo. Le stampe laser su plexiglass che costituiscono la serie de “Le martyre des saints” giocano sul dualismo e l’antiteticità di inquadrature poste a speculare confronto per approdare ad una armonia tra gli opposti, ad una dimensione di quiete e di atarassia : da un lato immagini, raffinate e non cruente, di sofferenza e di costrizione, dall’altro icone, volutamente enfatizzate nelle misure e nelle tinte, di elementi floreali emananti un senso di soavità e di liberazione.
2006, Edoardo Di Mauro, “Le martyre des saints” (personale)
È impossibile considerare l’ordine che Roberta Fanti impone allo spazio senza ripercorrere la struttura labirintica che accomuna l’evoluzione dei suoi lavori nel suo percorso artistico. I suoi oggetti, le sue installazioni, gli interventi, gli acrilici su tela, oscillano continuamente tra termini di opposizioni nette che si manifestano in composizioni in cui segmenti e curve trovano il loro equilibrio secondo un elemento ordinante che agisce da mediatore e catalizzatore dell’opera.
Le composizioni su tela diventano planimetrie in cui l’opposizione “retta” – “curva” trova la sua guida nella tenue mediazione dei colori pastello e viene guidata dalle tonalità raffinate e diluite, e le trame spigolose di textures dalla natura rigida ed angolare sfumano in sinuosità morbide attraverso il principio ordinante di una delicata scelta cromatica.
Le composizioni forzano lo spazio utilizzando l’opposizione , e quindi il conflitto, come strumento di modellazione; tuttavia le scene descrivono una situazione immobile, spesso irreale e sognante, in cui tutto è già accaduto ed ogni dramma conflittuale, se c’è stato, ha già avuto luogo.
Roberta Fanti propone la sua personale soluzione al problema dell’armonia degli opposti. Anzichè convergere verso un punto di equilibrio, le sue composizioni cercano l’enfatizzazione del conflitto ed utilizzano poi un elemento esterno all’opposizione per modularne il contrasto.
Lo spazio forzato in cui si chiude il circolo ansiogeno della conciliazione degli opposti è dominato dal silenzio, la vera essenza di una conflittualità risolta. Un silenzio ovattato che avvolge e paralizza ruoli già assegnati e consolidati, che nasce dallo spazio ma insieme lo immobilizza, diventa collante ed elemento stesso degli oggetti che ingloba.
Il gioco degli opposti ha tanti concorrenti ma nessun vincitore. La morbidezza dei cuscini, chiaro invito alla riflessione o subdola trappola paralizzante cede spazio alla rigidità degli spigoli di tavoli essenziali, freddi come scolpiti nel ghiaccio; l’invitante feticismo delle corde (agente costrittivo), l’azione negata, la compiaciuta consenziente rinuncia alla responsabilità dell’agire affiancano una composizione puntiforme, senza dimensioni e quindi senza costrizione alcuna; principio femminile (con una sfumatura remissiva) e principio maschile (propositivo) si fronteggiano seducenti ma equidistanti (ed equilibrati) in un ruolo che si consolida esattamente nell’oggetto che lo stabilisce (la frusta). Il tema della seduzione si interseca sinistramente con quello del sacrificio (fruste, legacci, nodi) ma rimane lontano, a temperature da spazio profondo, come per stabilire un’opposizione “qui” – “altrove”, un altrove di corpi e volti che si offrono, consapevoli e rassegnati, in silenzio.
Le composizioni su tela diventano planimetrie in cui l’opposizione “retta” – “curva” trova la sua guida nella tenue mediazione dei colori pastello e viene guidata dalle tonalità raffinate e diluite, e le trame spigolose di textures dalla natura rigida ed angolare sfumano in sinuosità morbide attraverso il principio ordinante di una delicata scelta cromatica.
Le composizioni forzano lo spazio utilizzando l’opposizione , e quindi il conflitto, come strumento di modellazione; tuttavia le scene descrivono una situazione immobile, spesso irreale e sognante, in cui tutto è già accaduto ed ogni dramma conflittuale, se c’è stato, ha già avuto luogo.
Roberta Fanti propone la sua personale soluzione al problema dell’armonia degli opposti. Anzichè convergere verso un punto di equilibrio, le sue composizioni cercano l’enfatizzazione del conflitto ed utilizzano poi un elemento esterno all’opposizione per modularne il contrasto.
Lo spazio forzato in cui si chiude il circolo ansiogeno della conciliazione degli opposti è dominato dal silenzio, la vera essenza di una conflittualità risolta. Un silenzio ovattato che avvolge e paralizza ruoli già assegnati e consolidati, che nasce dallo spazio ma insieme lo immobilizza, diventa collante ed elemento stesso degli oggetti che ingloba.
Il gioco degli opposti ha tanti concorrenti ma nessun vincitore. La morbidezza dei cuscini, chiaro invito alla riflessione o subdola trappola paralizzante cede spazio alla rigidità degli spigoli di tavoli essenziali, freddi come scolpiti nel ghiaccio; l’invitante feticismo delle corde (agente costrittivo), l’azione negata, la compiaciuta consenziente rinuncia alla responsabilità dell’agire affiancano una composizione puntiforme, senza dimensioni e quindi senza costrizione alcuna; principio femminile (con una sfumatura remissiva) e principio maschile (propositivo) si fronteggiano seducenti ma equidistanti (ed equilibrati) in un ruolo che si consolida esattamente nell’oggetto che lo stabilisce (la frusta). Il tema della seduzione si interseca sinistramente con quello del sacrificio (fruste, legacci, nodi) ma rimane lontano, a temperature da spazio profondo, come per stabilire un’opposizione “qui” – “altrove”, un altrove di corpi e volti che si offrono, consapevoli e rassegnati, in silenzio.
2006, Mauro Paterlini, Secret Room (personale)
La ricerca di Roberta Fanti, matura e riflessiva, ha caratteristiche allo stesso tempo di forte drammaticità e di delicata liricità, perché il tema (anche se probabilmente molto sentito personalmente) viene visualizzato non con interventi direttamente performativi ma attraverso il medium della fotografia e l’utilizzazione di immagini scelte e prelevate dall’immenso repertorio iconografico di internet , e cioè da una realtà virtuale pervasiva. Le immagini di corpi femminili, e più precisamente di frammenti di corpi , con scorci e definizioni di carattere anche feticistico, per lo più imprigionati in crudeli lacci o cinture, diventano elementi emblematici di una condizione perversa e ambivalente di sofferenza e piacere all’incrocio fra masochismo e sadismo, che però riescono ad assumere valenze esistenziali che vanno al di là della tensione puramente erotica. Per arrivare a questo risultato, in qualche modo sublimante, Fanti utilizza una tecnica ben studiata di neutralizzazione delle pulsioni primarie attraverso un gioco di connessione e contrapposizione di queste immagini choccanti con immagini naturali di estrema purezza e di forte connotazione simbolica. Si tratta di foto in primo piano di fiori estremamente emblematici in rapporto alla dimensione femminile: la rosa (simbolo della bellezza che si apre all’amore); il giglio (simbolo della purezza in tutti i sensi); del narciso (simbolo bisessuale della autoreferenzialità estetica e erotica).
I suoi lavori si presentano come una sorta di narrazione iconica fotografica, con due immagini giustapposte, che innescano in chi guarda una forte tensione mentale e emotiva che non trova mai una risposta tranquillizzante, ma che al contrario suscita un’inquietudine estetica carica di energia estetica ambivalente. La sola possibile via d’uscita suggerita dall’artista, per lei sicuramente fondamentale, è quella di una trasposizione di questa problematica “carnale” (e addirittura violentemente “bestiale”) sul piano della purificazione di matrice religiosa. E questa indicazione, in effetti, è esplicitamente presente, in una serie di lavori in cui le immagini di violenza sadica sui corpi femminili sono accompagnate da citazioni di testi sacri (riportati in latino) che rimandano a una possibile redenzione di tipo spirituale.
La ricerca di Roberta Fanti, matura e riflessiva, ha caratteristiche allo stesso tempo di forte drammaticità e di delicata liricità, perché il tema (anche se probabilmente molto sentito personalmente) viene visualizzato non con interventi direttamente performativi ma attraverso il medium della fotografia e l’utilizzazione di immagini scelte e prelevate dall’immenso repertorio iconografico di internet , e cioè da una realtà virtuale pervasiva. Le immagini di corpi femminili, e più precisamente di frammenti di corpi , con scorci e definizioni di carattere anche feticistico, per lo più imprigionati in crudeli lacci o cinture, diventano elementi emblematici di una condizione perversa e ambivalente di sofferenza e piacere all’incrocio fra masochismo e sadismo, che però riescono ad assumere valenze esistenziali che vanno al di là della tensione puramente erotica. Per arrivare a questo risultato, in qualche modo sublimante, Fanti utilizza una tecnica ben studiata di neutralizzazione delle pulsioni primarie attraverso un gioco di connessione e contrapposizione di queste immagini choccanti con immagini naturali di estrema purezza e di forte connotazione simbolica. Si tratta di foto in primo piano di fiori estremamente emblematici in rapporto alla dimensione femminile: la rosa (simbolo della bellezza che si apre all’amore); il giglio (simbolo della purezza in tutti i sensi); del narciso (simbolo bisessuale della autoreferenzialità estetica e erotica).
I suoi lavori si presentano come una sorta di narrazione iconica fotografica, con due immagini giustapposte, che innescano in chi guarda una forte tensione mentale e emotiva che non trova mai una risposta tranquillizzante, ma che al contrario suscita un’inquietudine estetica carica di energia estetica ambivalente. La sola possibile via d’uscita suggerita dall’artista, per lei sicuramente fondamentale, è quella di una trasposizione di questa problematica “carnale” (e addirittura violentemente “bestiale”) sul piano della purificazione di matrice religiosa. E questa indicazione, in effetti, è esplicitamente presente, in una serie di lavori in cui le immagini di violenza sadica sui corpi femminili sono accompagnate da citazioni di testi sacri (riportati in latino) che rimandano a una possibile redenzione di tipo spirituale.
2006, Francesco Poli, Trait-d’Union
Roberta Fanti cammina sul sottile confine tra sacrificio e santità, dolore e piacere, sadismo e masochismo… accosta immagini che costruiscono percorsi semantici filosofici e psicologici… attraversa antichi scenari religiosi, riti orientali, mondi onirici e primitivi abitati da animali che vivono su di una terra in cui ancora non è comparso l’uomo, colpita da fulmini ed avvolta dalle tenebre.
Roberta Fanti cammina sul sottile confine tra sacrificio e santità, dolore e piacere, sadismo e masochismo… accosta immagini che costruiscono percorsi semantici filosofici e psicologici… attraversa antichi scenari religiosi, riti orientali, mondi onirici e primitivi abitati da animali che vivono su di una terra in cui ancora non è comparso l’uomo, colpita da fulmini ed avvolta dalle tenebre.
Realizzati con una perfezione assoluta, lucidi e puri, i suoi lavori evocano primordiali stati d’animo confusi tra desideri, istinti, ansie e predizioni, e restituiscono all’uomo, attingendo dalle sue stesse ossessioni tradotte in oggetti visivi con la fotografia e l’elaborazione digitale, il suo magma umano misto di intelletto e paure antiche.
Nella serie “Les Pécheurs”, immagini cupe, rosee carni torturate nel buio, come risorte da un medioevo richiamato a vivere, si accostano a frasi latine tratte da preghiere e testi sacri e ne acquistano senso, e ne accentuano lo stridore… qualcosa di terribile ed incantevole allo stesso tempo… un Dio che ha perso la sua funzione protettrice… il piacere che si realizza oltre ai sacri precetti, oltre alla colpa, oltre al dolore, al castigo ed alla salvezza, ed allo stesso tempo, la sofferenza cui l’inganno di un Dio falsamente buono ha condotto gli uomini. Forte è il contrasto tra la tecnica utilizzata di impatto assolutamente contemporaneo, stampa lambda su alluminio di immagini fotografiche provenienti da internet ed altre da lei stessa scattate, e la scelta del contesto storico-religioso, che acuisce e risveglia le sensazioni ambigue giocate tra alternati stati d’animo.
Il terribile incanto si ripete anche in “Japanese Food”. Grandi opere dai colori accattivanti ed ammaliatori, cibo a cui il gusto non resiste, donne asiatiche dalle bocche carnose e desideranti, o dai corpi legati, offerte come oggetti, e poi toni sfumati… sempre tre immagini che ne formano una, sempre associazioni, sempre contrasti. Sempre quel senso dell’inganno che si avverte nel lavoro della Fanti, il doppio gioco, qualcosa che da un lato ti chiama e dall’altro te ne mostra la parte cattiva, sempre corpi eletti a simboli come pagine bianche su cui segnare, più o meno consapevolmente, perversioni miste a desiderio. Il cibo giapponese, che porta con sé una lunga storia filosofica, quasi ossessiva, di piacere estetico e di equilibrio visivo, ancor prima che del gusto, e quel particolare strano mondo della sessualità, in cui spesso il corpo femminile altro non è che oggetto di sadismo e perversione, insieme già nella cultura nipponica in molti dei suoi riti, viene riletto dalla Fanti accentuandone in modo seppur caramelloso e dolciastro gli aspetti più crudi, riconducendoli ad una realtà fatta di ingannevole bellezza oltre alla quale si avverte in paritario modo il desiderio, sia esso rivolto al corpo od al cibo. Ne consegue che la figura femminile risulti oggettivizzata al pari di ogni altro elemento delle sue opere. Non si avverte alcuna critica, da parte dell’autrice, allo stato delle cose che lei vuole rappresentare, ma soltanto la volontà di portare chi guarda, attraverso l’associazione visiva di tre momenti accostati, a riflessioni che possono di volta in volta oscillare tra le varie e contrastanti ipotesi e di lasciare ad ognuno la libertà di ogni pensiero.
Così anche per “The Creation”, la rappresentazione di una terra che ancora non conosce l’uomo, libera e terribile, in cui la forza della natura, pur nella sua bellezza, risulta oscura e minacciosa. Siamo nuovamente confusi tra la potenza meravigliosa e la paura ancestrale. Ed ancora è consegnata a noi qualunque conclusione cui possiamo giungere, passando spesso attraverso la sessualità, questa volta mediata da simboli meno espliciti ma non meno forti… il serpente… il fulmine… il fiore.
Il titolo della mostra, Closers, è nato dal lavoro della Fanti che prende di volta in volta significato attraverso l’associazione e l’accostamento di più immagini da leggersi in sinergia. Closers come le cose che hanno affinità tra loro, che vivono una accanto all’altra… come ogni fotogramma delle sue opere.
2007, Maria Vittoria Berti, Closers
Di mondi oscuri e profondi, dei luoghi dell’anima e del corpo, dell’immaginazione e delle sue corse verso il buio, di ciò che non vorremmo vedere… Roberta Fanti ci libera gli occhi dalle mani che vi teniamo ostinatamente davanti per ripararci dai mostri che pensiamo di poter nascondere a noi stessi. Le sue immagini vengono da un profondo che lei per prima non nega a sè, elaborate fino ad assumere una dimensione accettabile e possibile, patinate, lucidate, rese esteticamente perfette. Il risultato non può che farsi accattivante, nella sua duplicità: meraviglia e paura, oscurità e luce. Se siamo catturati senza scampo dall’equilibrio compositivo, dal colore, che lei usa in ambiente tecnologico come mestiche studiate a fondo, e dalle forme, siamo allo stesso tempo turbati dal significato forte che ognuna delle sue opere racconta. E’ sottile, la Fanti, nel richiamare i nostri sensi con l’esteriore bellezza di immagini a metà tra il fotografico ed il digitale, per raccontarci poi dei mostri che ognuno di noi tiene celati in sé e cerca di occultare alla sua stessa vista. Dalla luce alle tenebre, in un viaggio inverso, oppure la luce delle tenebre, la bellezza delle tenebre, il fascino delle tenebre… il richiamo forte di ciò che si teme… la misteriosa voce del buio, il canto delle sirene di Ulisse…
Il processo narrativo di Roberta Fanti è molteplice: non solo lavora sugli opposti stati d’animo, ma sull’associazione di più immagini da leggersi in sinergia tra loro. Un intreccio semantico costruito di volta in volta tramite accostamenti simbolici, opere che si capiscono solamente mettendo in relazione i diversi momenti visivi di cui sono composte. In ognuna delle sue serie di lavori, ciascuna opera è costituita da più immagini quasi sempre in differenti pannelli che cedono l’una all’altra valori e senso, che acquistano un concetto unitario proprio attraverso questo particolare modo compositivo.
Poi il resto, qualunque pensiero, giudizio o ipotesi, è affidato unicamente a chi guarda: libero di molteplici e possibili proiezione del sé, libero di accettare o rifiutare, di lasciarsi portare dal turbamento o di negarlo, di farsi ammaliare o respingere, lo spettatore non è mai convogliato dall’artista verso un’idea piuttosto che un’altra. La Fanti crea opere libere che tali devono rimanere, costruisce relazioni che si fanno di volta in volta, a seconda di ciascun fruitore, diverse tra loro, ognuna possibile.
In mostra due importanti serie di opere: “The Creation” e Japanese Food”. Nella prima si agitano le forze libere di una terra magnifica e terribile, terra che ancora non conosce l’uomo… si muovono e si spaccano il suolo e le rocce, il mare è impetuoso, il buio è impenetrabile, gli animali lottano tra loro con ferocia…acqua, aria, fuoco e terra allo stato puro, senza contaminazioni, nella foga della natura che si libera e si impone. La Fanti risveglia e richiama le nostra paure ancestrali, lega tra loro simbologie legate alla nascita, allo stato primordiale ed angoscioso di luoghi avvolti da tenebre e sconvolgimenti, e ci presenta tutto questo velato di una lucidità assoluta, di un nero in cui ci si specchia, accostando i blu profondi ai verdi intensi, il pallore lunare alle tenebre.
“Japanese Food” fa ancora richiamo al piacere ed al legame che esso ha con il dolore, con quel luogo annidato dentro ognuno di noi in cui la parola “piacere” si impasta con desideri mai confessati, confusi nella moltitudine di sentimenti contrari ed inespressi. La lettura ed i riferimenti si ottengono da diversi piani semantici: il colore, le associazioni visive, la forza delle immagini. Non si tratta di un semplice accostamento tra sesso e cibo, ma di infinite concordanze tra la fruibilità del cibo e quella del corpo, tra il consumo dell’uno e dell’altro, tra l’oggetto “cibo” e l’oggetto “donna”, tra la cultura europea e la cultura asiatica, tra la ricercatezza dell’estetica che in quella cultura coinvolge ogni ambito della vita abbracciando l’ossessiva e maniacale presentazione dei cibi e delle suppellettili e lo stesso ossessivo e maniacale culto del corpo femminile. Si possono fare infinite speculazioni filosofiche sulla condizione della donna e della sua strumentalizzazione nei paesi asiatici, sul rapporto tra il desiderio e la paura, tra ciò che è espresso e ciò che è recondito…
Rimane la meravigliosa duplicità di ogni opera di Roberta Fanti, l’accattivante e morboso gioco in cui ci trascina, il duro senso che ci insinua dopo averci ammaliato con la sua estetica lucida e ricercata, con la sua sublimazione esteriore di ognuno dei suoi e nostri personali mostri.
Di mondi oscuri e profondi, dei luoghi dell’anima e del corpo, dell’immaginazione e delle sue corse verso il buio, di ciò che non vorremmo vedere… Roberta Fanti ci libera gli occhi dalle mani che vi teniamo ostinatamente davanti per ripararci dai mostri che pensiamo di poter nascondere a noi stessi. Le sue immagini vengono da un profondo che lei per prima non nega a sè, elaborate fino ad assumere una dimensione accettabile e possibile, patinate, lucidate, rese esteticamente perfette. Il risultato non può che farsi accattivante, nella sua duplicità: meraviglia e paura, oscurità e luce. Se siamo catturati senza scampo dall’equilibrio compositivo, dal colore, che lei usa in ambiente tecnologico come mestiche studiate a fondo, e dalle forme, siamo allo stesso tempo turbati dal significato forte che ognuna delle sue opere racconta. E’ sottile, la Fanti, nel richiamare i nostri sensi con l’esteriore bellezza di immagini a metà tra il fotografico ed il digitale, per raccontarci poi dei mostri che ognuno di noi tiene celati in sé e cerca di occultare alla sua stessa vista. Dalla luce alle tenebre, in un viaggio inverso, oppure la luce delle tenebre, la bellezza delle tenebre, il fascino delle tenebre… il richiamo forte di ciò che si teme… la misteriosa voce del buio, il canto delle sirene di Ulisse…
Il processo narrativo di Roberta Fanti è molteplice: non solo lavora sugli opposti stati d’animo, ma sull’associazione di più immagini da leggersi in sinergia tra loro. Un intreccio semantico costruito di volta in volta tramite accostamenti simbolici, opere che si capiscono solamente mettendo in relazione i diversi momenti visivi di cui sono composte. In ognuna delle sue serie di lavori, ciascuna opera è costituita da più immagini quasi sempre in differenti pannelli che cedono l’una all’altra valori e senso, che acquistano un concetto unitario proprio attraverso questo particolare modo compositivo.
Poi il resto, qualunque pensiero, giudizio o ipotesi, è affidato unicamente a chi guarda: libero di molteplici e possibili proiezione del sé, libero di accettare o rifiutare, di lasciarsi portare dal turbamento o di negarlo, di farsi ammaliare o respingere, lo spettatore non è mai convogliato dall’artista verso un’idea piuttosto che un’altra. La Fanti crea opere libere che tali devono rimanere, costruisce relazioni che si fanno di volta in volta, a seconda di ciascun fruitore, diverse tra loro, ognuna possibile.
In mostra due importanti serie di opere: “The Creation” e Japanese Food”. Nella prima si agitano le forze libere di una terra magnifica e terribile, terra che ancora non conosce l’uomo… si muovono e si spaccano il suolo e le rocce, il mare è impetuoso, il buio è impenetrabile, gli animali lottano tra loro con ferocia…acqua, aria, fuoco e terra allo stato puro, senza contaminazioni, nella foga della natura che si libera e si impone. La Fanti risveglia e richiama le nostra paure ancestrali, lega tra loro simbologie legate alla nascita, allo stato primordiale ed angoscioso di luoghi avvolti da tenebre e sconvolgimenti, e ci presenta tutto questo velato di una lucidità assoluta, di un nero in cui ci si specchia, accostando i blu profondi ai verdi intensi, il pallore lunare alle tenebre.
“Japanese Food” fa ancora richiamo al piacere ed al legame che esso ha con il dolore, con quel luogo annidato dentro ognuno di noi in cui la parola “piacere” si impasta con desideri mai confessati, confusi nella moltitudine di sentimenti contrari ed inespressi. La lettura ed i riferimenti si ottengono da diversi piani semantici: il colore, le associazioni visive, la forza delle immagini. Non si tratta di un semplice accostamento tra sesso e cibo, ma di infinite concordanze tra la fruibilità del cibo e quella del corpo, tra il consumo dell’uno e dell’altro, tra l’oggetto “cibo” e l’oggetto “donna”, tra la cultura europea e la cultura asiatica, tra la ricercatezza dell’estetica che in quella cultura coinvolge ogni ambito della vita abbracciando l’ossessiva e maniacale presentazione dei cibi e delle suppellettili e lo stesso ossessivo e maniacale culto del corpo femminile. Si possono fare infinite speculazioni filosofiche sulla condizione della donna e della sua strumentalizzazione nei paesi asiatici, sul rapporto tra il desiderio e la paura, tra ciò che è espresso e ciò che è recondito…
Rimane la meravigliosa duplicità di ogni opera di Roberta Fanti, l’accattivante e morboso gioco in cui ci trascina, il duro senso che ci insinua dopo averci ammaliato con la sua estetica lucida e ricercata, con la sua sublimazione esteriore di ognuno dei suoi e nostri personali mostri.
2007, Maria Vittoria Berti, The Dark of my Soul (personale)
Ferite, fiori innocenti, fulmini, mani, carne, masochismo e seduzione. Una spirale inarrestabile di colore sgargiante che diventa nero e buio. Dall’attrazione istintiva direttamente si giunge alle nostre paure e alla religiosità che ci serve per farvi fronte. Ed ecco comparire latinismi tratti da tesi sacri e preghiere, quasi per chiedere scusa di tanto desiderio messo in atto, di tanta intensità e passionalità incontrollabile.
La serie The creation incarna un luogo dove l’uomo non ha ancora messo piede, in cui la natura e gli animali senza la contaminazione della complessità umana possono fungere da protagonisti. Nella serie Japanese food, invece , si alterano smaglianti e cangianti trilogie tratte da immagini web sulla realtà nipponica. La trilogia come riferimento alla divina trinità, o semplice accostamento in serie? L’ossessione per il cibo che misteriosamente si trasforma tramite l’uso del colore in attrazione erotica per corpi e bocche incise alla perfezione, scolpite in estatico piacere, che sembrano create apposta per essere desiderate. Il desiderio per la bellezza femminile che muta in un disperato appetito: la donna diventa un oggetto, al pari degli alimenti che le sono accostati, ma senza che questo le crei sdegno o repulsione. Non emerge una critica alla moralità o nei confronti del degrado sessuale legato al corpo femminile. Le immagini non sembrano immischiarsi all’etica sociale corrente, sembrano prendere forma da un contesto con un proprio e indipendente apparato concettuale, che segue altre regole e altri schemi di comportamento sociale. L’attenzione è poi catalizzata da su mano insanguinata, che la Fanti riprende da un’immagine di guerra: un filo sottile che lega la mostra all’attualità, ma che si snoda subito da essa, assumendo una forma quasi sacrale e divina, evocando il martirio e il sacrificio della religione cattolica.
Quell’ottica di immolazione ricorre nella serie Les Pecheurs, con i suoi corpi umani avviluppati tra loro. Il masochismo, la tortura, il bisogno di espiare qualcosa sono tutte immagini collegate a queste fotografie, come momenti di intensa e immancabile penetrazione del bene e del male, senza la possibilità di districare la parte giusta da quella sbagliata. Estensione dal giudizio, per un arte che ci catapulta in un mondo di desideri infiniti, in spirali che convogliano le parti più profonde e dimenticate dell’anima.
La serie The creation incarna un luogo dove l’uomo non ha ancora messo piede, in cui la natura e gli animali senza la contaminazione della complessità umana possono fungere da protagonisti. Nella serie Japanese food, invece , si alterano smaglianti e cangianti trilogie tratte da immagini web sulla realtà nipponica. La trilogia come riferimento alla divina trinità, o semplice accostamento in serie? L’ossessione per il cibo che misteriosamente si trasforma tramite l’uso del colore in attrazione erotica per corpi e bocche incise alla perfezione, scolpite in estatico piacere, che sembrano create apposta per essere desiderate. Il desiderio per la bellezza femminile che muta in un disperato appetito: la donna diventa un oggetto, al pari degli alimenti che le sono accostati, ma senza che questo le crei sdegno o repulsione. Non emerge una critica alla moralità o nei confronti del degrado sessuale legato al corpo femminile. Le immagini non sembrano immischiarsi all’etica sociale corrente, sembrano prendere forma da un contesto con un proprio e indipendente apparato concettuale, che segue altre regole e altri schemi di comportamento sociale. L’attenzione è poi catalizzata da su mano insanguinata, che la Fanti riprende da un’immagine di guerra: un filo sottile che lega la mostra all’attualità, ma che si snoda subito da essa, assumendo una forma quasi sacrale e divina, evocando il martirio e il sacrificio della religione cattolica.
Quell’ottica di immolazione ricorre nella serie Les Pecheurs, con i suoi corpi umani avviluppati tra loro. Il masochismo, la tortura, il bisogno di espiare qualcosa sono tutte immagini collegate a queste fotografie, come momenti di intensa e immancabile penetrazione del bene e del male, senza la possibilità di districare la parte giusta da quella sbagliata. Estensione dal giudizio, per un arte che ci catapulta in un mondo di desideri infiniti, in spirali che convogliano le parti più profonde e dimenticate dell’anima.
2007, Giulia Cavallaro, Closers (personale, recensione)
L'uomo contemporaneo si agita in una superficie monodimensionale. Gli scetticismi del secolo scorso lo hanno privato della verità di ogni contenuto di pensiero, costringendo ogni speculazione ad infrangersi contro una superficie specchiante e muta. La strategia delle immagini allontana il consumatore dal contenuto del referente, svigorendone la vita fino a ridurlo ad esangue immagine doppia: un simulacro. L'assuefazione globale alle immagini, la trasformazione della società in una superficie pixellata, consente al potere tecnocratico un illimitato controllo sul comportamento umano digitalizzato, ridotto a dato statistico da elaborare. Desideri, aspettative, speraze, passioni si spersonalizzano nelle innervazioni dell'industria dello spettacolo, diventano scosse nel silicio. L'eccesso raziocinante, forzando la ragione alla logica del guadagno, ha bollato ogni domanda rivolta su questioni fondanti come non-verficabile, immaginazione prescientifica e pertanto sterile nella iperconcreta condizione funzionale. Il mondo è una profondità tutta in superficie. Nel migliore dei casi, all'artista e al pensatore è consentita una passiva contemplazione estetica, languente di debolezza nevrotica. Lo sforzo divincolante si muove all'interno di questa epokè fenomenologica che ha messo tra parentesi, probematizzandolo, ogni contenuto di verità del concetto e della percezione, compresa quella del soggetto nella sua riflessione. Questo sforzo si realizza nel recupero dell'artista delle domande sull'essenza e sul senso. Rinunciando a verità assolute, il senso di una domanda può ancora essere lo scopo di una ricerca. Roberta Fanti adotta questo recupero interrogandosi ancora sul senso del sacro. Le sue immagini poetiche sono "tagliate" dalla superficie globale, fotografate e scaricate dal bacino illimitato del web, rielaborate in postproduzione. Sono messe in atto tutte le strategie pubblicitarie: superficie patinata, psicologia del colore, feticismo dell'oggetto. Tuttavia la seduzione non è funzionale all'acquisto del prodotto, ma significa se stessa, stimola originarie pulsioni umane senza dirigerle verso il supermarket. Con queste premesse, il recupero del sacro si articola attraverso la sensualità, il sentimento della bellezza, sollecitando il senso e i sensi dell'osservatore.
Fanti redime l'immagine dal meccanismo dell'obsolescenza guidata restituendola all'indagine spirituale. Nel suo percorso, tale indagine si focalizza sulla dicotomia tra soggetto attivo, fondatore di volontà con la propria coscienza libera, e soggetto controllato, che trascende il primo; o, per meglio dire, tra soggetto-soggetto e soggetto-oggetto. L'insolubilità di questa parallasse nella percezione del soggetto si manifesta nel potere esercitato dall'Ego dominante, e dalla vittoria implicita del dominato, da cui il primo dipende per la direzione dei suoi atti di volontà. Se questo esercita la sua libera supremazia astraendosi, il soggetto dominato delega la sua volontà all'altro da se, reificandosi in un'assolutezza oggettivamente polarizzata, nel cedere la propria incarnazione al mondo ed elevando, per riflesso, lo spirito. Un esame analitico della psicologia dei comportamenti umani rinverrebbe entrambi i momenti opposti in ogni atomo d'azione: nel dono, nel dialogo, dov'è necessaria l'alternanza di un momento attivo-informativo e di uno passivo-ricettivo; persino nella carità. Così, la loro coesistenza converge verso lo Spirito e si ancora reciprocamente nel paradosso della carne.
Fanti redime l'immagine dal meccanismo dell'obsolescenza guidata restituendola all'indagine spirituale. Nel suo percorso, tale indagine si focalizza sulla dicotomia tra soggetto attivo, fondatore di volontà con la propria coscienza libera, e soggetto controllato, che trascende il primo; o, per meglio dire, tra soggetto-soggetto e soggetto-oggetto. L'insolubilità di questa parallasse nella percezione del soggetto si manifesta nel potere esercitato dall'Ego dominante, e dalla vittoria implicita del dominato, da cui il primo dipende per la direzione dei suoi atti di volontà. Se questo esercita la sua libera supremazia astraendosi, il soggetto dominato delega la sua volontà all'altro da se, reificandosi in un'assolutezza oggettivamente polarizzata, nel cedere la propria incarnazione al mondo ed elevando, per riflesso, lo spirito. Un esame analitico della psicologia dei comportamenti umani rinverrebbe entrambi i momenti opposti in ogni atomo d'azione: nel dono, nel dialogo, dov'è necessaria l'alternanza di un momento attivo-informativo e di uno passivo-ricettivo; persino nella carità. Così, la loro coesistenza converge verso lo Spirito e si ancora reciprocamente nel paradosso della carne.
Con la coscienza sospesa nella mediazione, l'essenza è richiamata come nostalgia della perfezione, come lontananza di una bellezza neoclassica, latente nelle immagini di Roberta Fanti; la luna mostra il suo lato oscuro nell'incommensurabilità della sua sfera, come avviene nella Melancolia I di Durer. Una ricerca la cui speranza d'approdo è il pipistrello che sbatte contro i muri e il soffitto marciti nello spleen baudelairiano.
Anche i momenti narrativi sono parzialmente suggeriti da frames cinematografici che lasciano aperto l'enigma di pulsioni archetipiche, attraverso istantanee di un delitto senza soluzione, immagini intrise di sangue, la cui dispersione purifica il senso di colpa di chi è ancora in vita ed aspira all'assoluto. Tale aspirazione è frustrata nel suo esito, si muove in un circolo ermeneutico avvicinandosi infinitamente al proprio oggetto senza poterlo raggiungere. Fanti indaga trasversalmente diversi misteri esoterici intorno agli enigmi dell'esistenza. Nell'orientalismo sembra essere più attratta dall'istante primigenio. Anche questo pallido mistero non emerge dall'oscurità che l'avvolge. Si avverte come uno smarrimento nella narrazione mitopoietica dell'attimo di creazione della vita. Ogni ipotesi deve rinunciare al metodo scientifico per tornare ad un'alchimia degli elementi della natura.
Anche i momenti narrativi sono parzialmente suggeriti da frames cinematografici che lasciano aperto l'enigma di pulsioni archetipiche, attraverso istantanee di un delitto senza soluzione, immagini intrise di sangue, la cui dispersione purifica il senso di colpa di chi è ancora in vita ed aspira all'assoluto. Tale aspirazione è frustrata nel suo esito, si muove in un circolo ermeneutico avvicinandosi infinitamente al proprio oggetto senza poterlo raggiungere. Fanti indaga trasversalmente diversi misteri esoterici intorno agli enigmi dell'esistenza. Nell'orientalismo sembra essere più attratta dall'istante primigenio. Anche questo pallido mistero non emerge dall'oscurità che l'avvolge. Si avverte come uno smarrimento nella narrazione mitopoietica dell'attimo di creazione della vita. Ogni ipotesi deve rinunciare al metodo scientifico per tornare ad un'alchimia degli elementi della natura.
Nella superficie specchiante dell'esistenza ridotta ad immagine transitoria, Roberta Fanti esplora poeticamente l'Enigma, sfiorandone la bellezza terribile dei confini.
2008, Michele Bramante
Secondo la teoria del colore, il nero è la risultanza dell’assorbimento di tutte le cromie esistenti. E nel suo trittico Back in Black, Roberta Fanti elegge protagonista – per l’appunto – un nero sinuoso e avvolgente, che con eleganza assorbe, ingoia, fagocita qualsiasi forma incontri sul proprio cammino.
Composto da tre elaborazioni digitali realizzate tra il 2012 e il 2016, Back in Black è il racconto per immagini di un viaggio nell’oscurità più fitta, nel quale la partenza è assicurata, ma il ritorno non garantito. L’artista seleziona visioni, azzarda accostamenti, si serve della Computer Graphic per scompaginare e poi rimettere – ricercare – ordine. Secondo un modus operandi distintivo, Fanti edita una vera e propria parabola, una Via Crucis dark nella quale la sfera personale è il punto di partenza per indagare nervi universalmente scoperti. Il corpo, solitamente oggetto d’indagine privilegiato, è stavolta assente (o quasi): il focus è su elementi naturali e atmosferici, satelliti contrapposti a strumenti di costrizione, un catalogo di libere associazioni dove ogni singolo elemento è presagio di un cataclisma incombente.
In The Second Moon (2012) la composizione monocroma è squarciata ai lati da lampi lattiginosi: una luna (calante? Sorgente?) si contrappone a due mani femminili, protagoniste di un momento bondage figlio dell’estetica di Nobuyoshi Araki. L’artista cristallizza un segmento temporale ed emozionale preciso, nel quale i moti lunari e le forze della natura influenzano una sessualità assoluta, panica, inconsapevole dei confini tra dolore e piacere.
Le mie prigioni (2015) propone un altro close-up su due realtà oggettuali, la cui valenza simbolica emerge nonostante il buio livido in cui sono immerse le immagini. Le perfette rotondità dei grani del rosario buddista si contrappongono alle spine di un gambo di rosa, che scintillano nella penombra. Anche qui Roberta Fanti parte dal vissuto personale per indagare questioni di necessità collettiva: la società si identifica come elemento naturalmente spinoso, insidioso, un ostacolo per l’individuo senziente e illuminato la cui ricerca spirituale dovrebbe essere tensione verso la luce, e invece è prigioniera dell’oblio figlio del pregiudizio.
La spiritualità ispira anche il dittico conclusivo, Kaliyuga (2015-16). Nelle Scritture induiste, Kaliyuga è un'era oscura, caratterizzata da conflitti e diffusa ignoranza: al suo termine, però, Satya Yuga (o Età dell'oro) permetterà all’uomo il ritorno ad un rinnovato paradiso terrestre. Con una sequenza visiva di gusto cinematografico (echeggiano le atmosfere di Solaris di Tarkovskij), l’artista impressiona un rivolgimento naturale in atto, l’inquieta partecipazione della Terra dinanzi al cambiamento definitivo. La pioggia s’infrange sul selciato, l’eclissi lunare buca il cielo: nell’istante più dark dell’intero ciclo, Roberta Fanti ricerca l’immagine risolutiva, quella in grado di contenere tutto ciò che verrà e sarà di conseguenza. Malgrado la penetrante oscurità, nonostante le fosche atmosfere, ciò che più colpisce è però quello spot luminoso - la luce bianca, contundente, che fa capolino da dietro la luna: quasi un presagio di innocenza, la possibilità che questa spedizione Back in Black possa concedere l’opportunità di un ritorno. L’ultima chance di un’umanità votata all’inquietudine.
Composto da tre elaborazioni digitali realizzate tra il 2012 e il 2016, Back in Black è il racconto per immagini di un viaggio nell’oscurità più fitta, nel quale la partenza è assicurata, ma il ritorno non garantito. L’artista seleziona visioni, azzarda accostamenti, si serve della Computer Graphic per scompaginare e poi rimettere – ricercare – ordine. Secondo un modus operandi distintivo, Fanti edita una vera e propria parabola, una Via Crucis dark nella quale la sfera personale è il punto di partenza per indagare nervi universalmente scoperti. Il corpo, solitamente oggetto d’indagine privilegiato, è stavolta assente (o quasi): il focus è su elementi naturali e atmosferici, satelliti contrapposti a strumenti di costrizione, un catalogo di libere associazioni dove ogni singolo elemento è presagio di un cataclisma incombente.
In The Second Moon (2012) la composizione monocroma è squarciata ai lati da lampi lattiginosi: una luna (calante? Sorgente?) si contrappone a due mani femminili, protagoniste di un momento bondage figlio dell’estetica di Nobuyoshi Araki. L’artista cristallizza un segmento temporale ed emozionale preciso, nel quale i moti lunari e le forze della natura influenzano una sessualità assoluta, panica, inconsapevole dei confini tra dolore e piacere.
Le mie prigioni (2015) propone un altro close-up su due realtà oggettuali, la cui valenza simbolica emerge nonostante il buio livido in cui sono immerse le immagini. Le perfette rotondità dei grani del rosario buddista si contrappongono alle spine di un gambo di rosa, che scintillano nella penombra. Anche qui Roberta Fanti parte dal vissuto personale per indagare questioni di necessità collettiva: la società si identifica come elemento naturalmente spinoso, insidioso, un ostacolo per l’individuo senziente e illuminato la cui ricerca spirituale dovrebbe essere tensione verso la luce, e invece è prigioniera dell’oblio figlio del pregiudizio.
La spiritualità ispira anche il dittico conclusivo, Kaliyuga (2015-16). Nelle Scritture induiste, Kaliyuga è un'era oscura, caratterizzata da conflitti e diffusa ignoranza: al suo termine, però, Satya Yuga (o Età dell'oro) permetterà all’uomo il ritorno ad un rinnovato paradiso terrestre. Con una sequenza visiva di gusto cinematografico (echeggiano le atmosfere di Solaris di Tarkovskij), l’artista impressiona un rivolgimento naturale in atto, l’inquieta partecipazione della Terra dinanzi al cambiamento definitivo. La pioggia s’infrange sul selciato, l’eclissi lunare buca il cielo: nell’istante più dark dell’intero ciclo, Roberta Fanti ricerca l’immagine risolutiva, quella in grado di contenere tutto ciò che verrà e sarà di conseguenza. Malgrado la penetrante oscurità, nonostante le fosche atmosfere, ciò che più colpisce è però quello spot luminoso - la luce bianca, contundente, che fa capolino da dietro la luna: quasi un presagio di innocenza, la possibilità che questa spedizione Back in Black possa concedere l’opportunità di un ritorno. L’ultima chance di un’umanità votata all’inquietudine.
2016, Daniele Licata, Back in Black (personale)
Il concetto e la pratica della rappresentazione artistica intesa come mimesi naturalistica ed il conseguente predominio della pittura entrano in crisi proprio dall’avvento della fotografia nella prima metà dell’ 800, estrema e conclusiva propaggine della modernità. Inizia da allora, e prosegue lungo il crinale novecentesco, quello che alcuni teorici definirono un vero e proprio “combattimento per un’immagine”, una tenzone tesa a stabilire il dominio sulla riproduzione del reale, con gli Impressionisti primi a scendere massicciamente in campo pronti a sfidare la tecnica fotografica nell’impari cimento della rappresentazione naturalistica.
In realtà si tratta di un combattimento privo di senso e teso, semmai, a raggiungere un pareggio, una sostanziale pacificazione, come appare evidente analizzando le vicende storiche del Novecento, i cui effetti si prolungano ad occupare anche la prima parte di questo nuovo millennio. Come sostenuto da uno dei più preparati storici italiani della fotografia, Claudio Marra, con una tesi che mi sento di condividere, in realtà solo in parte la fotografia è stata un prolungamento della pittura con altri mezzi, più semplici ed immediati, al punto, in certi casi, da non richiedere neppure una particolare preparazione e professionalità nell’uso dello strumento, adoperato come una vera e propria protesi. In realtà la fotografia è dotata di uno statuto linguistico proprio e di un diverso livello referenziale nella rappresentazione della realtà, tali da apparentarla, semmai, alle modalità “extra - artistiche” introdotte nella teoria delle avanguardie storiche e portate a piena diffusione tra gli anni ’50 e ‘ 70 del secolo scorso, con la fuoriuscita dell’arte dal tradizionale alveo bidimensionale tipico della pittura per procedere verso una volontà di contaminazione con l’ambiente esterno inteso come piena omologia con il mondo, nel perseguimento di una esperienza estetica, quindi sensoriale, totalizzante.
La fotografia, nell’ultimo trentennio, si è avvalsa della disinibizione formale cifra stilistica del postmoderno per riversarsi massiccia nel panorama eclettico della contemporaneità privilegiando la funzione piuttosto che l’oggetto e diventando, negli anni ’80 ma ancora di più nel decennio successivo, la dimensione narrativa maggioritaria, in compagnia di quello che è stato il suo primo derivato tecnologico, il video.
L’atteggiamento si è manifestato nella duplice accezione di una partecipazione “fredda”, tendente a privilegiare una classificazione impersonale ed asettica dell’esistente e della banalità quotidiana, ed un’altra dimensione “calda”, “psicologica”, in cui gli artisti hanno adoperato il mezzo come estensione del proprio io, per calarsi nel reale con atteggiamento di affettuosa partecipazione
Il lavoro fotografico di Roberta Fanti, come ebbi a scrivere nell'ambito di una sua personale alla Fusion Art Gallery di Torino nel 2006, con osservazioni che ritengo di poter ribadire anche in occasione di quest'altro allestimento da Millenium a Bologna, si pone da anni con coerenza su di una linea di raffinata riflessione concettuale, dove l’asciutto minimalismo della dimensione poetica si sposa alla capacità di comporre installazioni eclettiche di rara eleganza e misura.
Quindi la dimensione del puro pensiero si rapporta all’universo sensoriale alla ricerca di una condizione di quiete e di pura contemplazione, privata del tumulto di una passione troppo accesa e viscerale.
Dopo una serie di opere realizzate nella prima parte degli anni Zero in cui si manifestava una predominanza concettuale nell’uso di toni e tinte essenziali ed una chiara tendenza aniconica, più ispirata alla ritmicità decorativa della tradizione orientale che a quella occidentale, dove l’astrazione è quasi sempre rimpianto dell’immagine, l'artista, a partire dalla serie "Le Martyre des Sants" e nelle successive "Les Pècheurs", "Japanese Food", "The Virgins", manifesta una predilezione per la rappresentazione di particolari anatomici e volti femminili, spesso di giovani donne orientali, in una delicata e coinvolgente proposta di immagini derivanti dal recente immaginario della Body Art.
A partire da "Resurrection" e dalla successiva "The Graves", l'autrice vira decisamente verso una ricerca simbolica, realizzando composizioni singole, ma anche dittici e trittici indirizzati verso la ripresa di temi classici della storia dell'arte come il ciclo vita-morte, la "natura naturans", con una marcata presenza di elementi floreali, ed il "memento mori".
Esemplare da questo punto di vista l'opera murale realizzata nel 2009 sull'intera facciata di una casa nel torinese Borgo Campidoglio, prodotta dal Museo d'Arte Urbana, che a breve sarà oggetto di un restauro conservativo.
Il titolo "Cor Iesu" e la tipologia compositiva, una rosa che ricopre l'intero spazio di una finestra persiana compresa e delle catene dipinte ai lati, che sembrano voler fissare al suolo l'insieme, ma indicano anche una forte volontà vocazionale, sottendono la passione di Roberta Fanti per la dimensione del romanticismo di derivazione Preraffaellita.
La serie "Memorabilia" consiste in una sorta di archivio delle poetiche sviluppate in questi anni. Singole inquadrature, che si stagliano nitide su sfondo nero, riproducono elementi dell'immaginario di Roberta Fanti, animali simbolici come i serpenti, fiori, manette, rotoli di carta adesiva, organi umani balenano alla vista dello spettatore con impatto sorprendente .
Questa è frutto anche della tecnica adoperata, la stampa lambda su leger. Tale procedimento si distingue dalle altre tipologie di stampa digitale, per la totale assenza di retino, e la nitidezza e ricchezza dei toni e delle sfumature.
In mostra anche due lavori che inaugurano una nuova serie, questa volta stampe plotter su tela, immagini in garbata opposizione dialettica su superfici sferiche.
In realtà si tratta di un combattimento privo di senso e teso, semmai, a raggiungere un pareggio, una sostanziale pacificazione, come appare evidente analizzando le vicende storiche del Novecento, i cui effetti si prolungano ad occupare anche la prima parte di questo nuovo millennio. Come sostenuto da uno dei più preparati storici italiani della fotografia, Claudio Marra, con una tesi che mi sento di condividere, in realtà solo in parte la fotografia è stata un prolungamento della pittura con altri mezzi, più semplici ed immediati, al punto, in certi casi, da non richiedere neppure una particolare preparazione e professionalità nell’uso dello strumento, adoperato come una vera e propria protesi. In realtà la fotografia è dotata di uno statuto linguistico proprio e di un diverso livello referenziale nella rappresentazione della realtà, tali da apparentarla, semmai, alle modalità “extra - artistiche” introdotte nella teoria delle avanguardie storiche e portate a piena diffusione tra gli anni ’50 e ‘ 70 del secolo scorso, con la fuoriuscita dell’arte dal tradizionale alveo bidimensionale tipico della pittura per procedere verso una volontà di contaminazione con l’ambiente esterno inteso come piena omologia con il mondo, nel perseguimento di una esperienza estetica, quindi sensoriale, totalizzante.
La fotografia, nell’ultimo trentennio, si è avvalsa della disinibizione formale cifra stilistica del postmoderno per riversarsi massiccia nel panorama eclettico della contemporaneità privilegiando la funzione piuttosto che l’oggetto e diventando, negli anni ’80 ma ancora di più nel decennio successivo, la dimensione narrativa maggioritaria, in compagnia di quello che è stato il suo primo derivato tecnologico, il video.
L’atteggiamento si è manifestato nella duplice accezione di una partecipazione “fredda”, tendente a privilegiare una classificazione impersonale ed asettica dell’esistente e della banalità quotidiana, ed un’altra dimensione “calda”, “psicologica”, in cui gli artisti hanno adoperato il mezzo come estensione del proprio io, per calarsi nel reale con atteggiamento di affettuosa partecipazione
Il lavoro fotografico di Roberta Fanti, come ebbi a scrivere nell'ambito di una sua personale alla Fusion Art Gallery di Torino nel 2006, con osservazioni che ritengo di poter ribadire anche in occasione di quest'altro allestimento da Millenium a Bologna, si pone da anni con coerenza su di una linea di raffinata riflessione concettuale, dove l’asciutto minimalismo della dimensione poetica si sposa alla capacità di comporre installazioni eclettiche di rara eleganza e misura.
Quindi la dimensione del puro pensiero si rapporta all’universo sensoriale alla ricerca di una condizione di quiete e di pura contemplazione, privata del tumulto di una passione troppo accesa e viscerale.
Dopo una serie di opere realizzate nella prima parte degli anni Zero in cui si manifestava una predominanza concettuale nell’uso di toni e tinte essenziali ed una chiara tendenza aniconica, più ispirata alla ritmicità decorativa della tradizione orientale che a quella occidentale, dove l’astrazione è quasi sempre rimpianto dell’immagine, l'artista, a partire dalla serie "Le Martyre des Sants" e nelle successive "Les Pècheurs", "Japanese Food", "The Virgins", manifesta una predilezione per la rappresentazione di particolari anatomici e volti femminili, spesso di giovani donne orientali, in una delicata e coinvolgente proposta di immagini derivanti dal recente immaginario della Body Art.
A partire da "Resurrection" e dalla successiva "The Graves", l'autrice vira decisamente verso una ricerca simbolica, realizzando composizioni singole, ma anche dittici e trittici indirizzati verso la ripresa di temi classici della storia dell'arte come il ciclo vita-morte, la "natura naturans", con una marcata presenza di elementi floreali, ed il "memento mori".
Esemplare da questo punto di vista l'opera murale realizzata nel 2009 sull'intera facciata di una casa nel torinese Borgo Campidoglio, prodotta dal Museo d'Arte Urbana, che a breve sarà oggetto di un restauro conservativo.
Il titolo "Cor Iesu" e la tipologia compositiva, una rosa che ricopre l'intero spazio di una finestra persiana compresa e delle catene dipinte ai lati, che sembrano voler fissare al suolo l'insieme, ma indicano anche una forte volontà vocazionale, sottendono la passione di Roberta Fanti per la dimensione del romanticismo di derivazione Preraffaellita.
La serie "Memorabilia" consiste in una sorta di archivio delle poetiche sviluppate in questi anni. Singole inquadrature, che si stagliano nitide su sfondo nero, riproducono elementi dell'immaginario di Roberta Fanti, animali simbolici come i serpenti, fiori, manette, rotoli di carta adesiva, organi umani balenano alla vista dello spettatore con impatto sorprendente .
Questa è frutto anche della tecnica adoperata, la stampa lambda su leger. Tale procedimento si distingue dalle altre tipologie di stampa digitale, per la totale assenza di retino, e la nitidezza e ricchezza dei toni e delle sfumature.
In mostra anche due lavori che inaugurano una nuova serie, questa volta stampe plotter su tela, immagini in garbata opposizione dialettica su superfici sferiche.
2018, Edoardo Di Mauro, Collezione Privata (personale)